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Ossigenoterapia: Come, cosa, quando e perché

Ossigenoterapia: Come, cosa, quando e perché

L’ossigenoterapia si rende necessaria in quelle le situazioni che comportano una riduzione dei livelli di ossigeno (PaO2) nel sangue. L’obiettivo dell’ossigenoterapia è quello di migliorare l’ossigenazione dei tessuti, ridurre lo sforzo respiratorio, ridurre lo sforzo cardiaco nei cardiopatici e aumentare la sopravvivenza.

Ossigeno, un farmaco a tutti gli effetti
Paziente con ossigenoterapia
Somministrare ossigenoterapia significa somministrare un farmaco a tutti gli effetti

L’ossigeno (O2) viene prodotto e venduto come gas medicinale ed è un farmaco a tutti gli effetti (DLvo 219/06). Essendo la molecola più importante per la sopravvivenza dell’organismo umano, il suo utilizzo clinico è spesso determinante per la sopravvivenza di un paziente.

L’ossigeno come gli altri farmaci necessita di prescrizione medica, ma secondo il Ministero della Salute è consentito a personale infermieristico, anche in assenza di un parere medico, somministrare ossigeno in situazione di emergenza, senza incorrere nell’esercizio abusivo della professione medica.

Il Consiglio Superiore di Sanità ha espresso addirittura un parere sul fatto che l’ossigeno richieda sì prescrizione medica per la vendita, ma che la sua somministrazione non si limita al medico o al personale sanitario, ma è concessa a tutti, come ad esempio il paziente a domicilio (Circolare ministeriale sul parere positivo alla somministrazione di O2 in emergenza senza prescrizione medica).

Non esistono indicazioni ufficiali che vietano all’infermiere di somministrare più di un certo numero di litri al minuto (l/min) di ossigeno, ma anzi, in caso di necessità, l’infermiere è obbligato ad intervenire per garantire la sopravvivenza e il miglior intervento possibile.

Vale quindi la regola che in caso di necessità è possibile somministrare O2 nella quantità necessaria per raggiungere i target di SpO2 (saturazione periferica di ossigeno) condivisi da linee guida internazionali e validate.

Ossigenoterapia: Indicazioni alla somministrazione terapeutica di ossigeno
L’obiettivo dell’ossigenoterapia è quello di aumentare l’ossigeno a livello alveolare ed arterioso aumentando quindi la FiO2 (frazione inspirata di ossigeno), con conseguente aumento della saturazione dell’emoglobina (SpO2) e del contenuto di O2 nel sangue (PaO2).

L’ossigenoterapia si rende necessaria in quelle le situazioni che comportano una riduzione dei livelli di ossigeno (PaO2) nel sangue. Ovviamente nell’aria che respiriamo l’ossigeno è presente con una FiO2 (percentuale di O2 nell’aria) del 21%.

Talvolta non è sufficiente questa quantità per soddisfare le richieste fisiologiche o patologiche del paziente. È per questo motivo che dobbiamo somministrare al paziente una percentuale supplementare di O2 inspirato.

Gli obiettivi della somministrazione di O2 sono quindi quelli di migliorare l’ossigenazione dei tessuti, ridurre lo sforzo respiratorio, ridurre lo sforzo cardiaco nei cardiopatici, aumentare la sopravvivenza.

Ossigenoterapia iperbarica: Come, quando e perché
L’Ossigenoterapia Iperbarica (OTI) è la somministrazione di ossigeno puro (o di miscele gassose iperossigenate), che avviene all’interno di speciali ambienti, le camere iperbariche, che vengono portati ad una pressione superiore a quella atmosferica mediante pressurizzazione con aria compressa, mentre il paziente all’interno respira ossigeno in un circuito chiuso, attraverso maschere, caschi o tubi endotracheali.

Florence Nightingale

In pratica è come fare un’immersione a 15 metri di profondità (o più in base alla situazione).

L’Ossigenoterapia Iperbarica viene usata nelle patologie in cui esiste e persiste uno squilibrio locale fra necessità, apporto e capacità di utilizzazione dell’Ossigeno (Linee guida sull’ossigenoterapia iperbarica, 2007).

I principi su cui si basa questa terapia derivano da leggi fisiche dei gas che regolano l’assorbimento e la diffusione tissutale, da principi di fisiologia e dalla conoscenza della farmacologia dell’ossigeno: riassumendole si può dire che in un ambiente iperbarico si ha molta più pressione parziale di O2 nel sangue (PaO2) rispetto al livello del mare e questo permette di ottenere una ossigenazione anche del plasma sanguigno, che si fa da veicolo per il trasporto di O2 assieme all’emoglobina dei globuli rossi, con una conseguente penetrazione dell’ossigeno a fondo di ogni tessuto, anche in zone dove arriverebbe con più difficoltà, per aiutare i tessuti che sono ipossici.

Secondo le linee guida sull’ossigenoterapia iperbarica le patologie che sono indicate per un trattamento iperbarico sono:

Malattia da decompressione (subacquei)
Embolia gassosa arteriosa (iatrogena, come ad esempio errata rimozione di un CVC o barotraumatica)
Gangrena gassosa da clostridi
Infezione acuta e cronica dei tessuti molli a varia eziologia
Gangrena e ulcere cutanee nel paziente diabetico
Intossicazione da monossido di carbonio
Lesioni da schiacciamento e sindrome compartimentale
Fratture a rischio
Innesti cutanei e lembi a rischio
Osteomielite cronica refrattaria
Ulcere cutanee da insufficienza arteriosa, venosa e post-traumatica
Lesioni tissutali post-attiniche
Ipoacusia improvvisa
Osteonecrosi asettica
Retinopatia pigmentosa
Sindrome di Meniere
Sindrome Algodistrofica
Paradontopatia
I buoni risultati sono spesso rapidi e molto evidenti, ma il paziente necessita di lunghi cicli di sedute per una guarigione completa.

Di norma una seduta dura due ore e si svolge con una fase di compressione (dove la pressione aumenta come se ci si immergesse in profondità), una fase di terapia alla pressione iperbarica dove il paziente respira 3 cicli di ossigeno iperbarico da una maschera ermetica intervallati da pause per ridurre gli effetti avversi, e poi la fase di decompressione o risalita lenta.

Gli effetti avversi, che possono essere anche piuttosto seri, sono il rischio di barotrauma (ad esempio pneumotorace da rottura di alveoli o rottura del timpano), problemi emodinamici come bradicardia e ipotensione per riduzione del ritorno venoso, miopatia temporanea dopo almeno 20 sedute, ipercapnia o addirittura convulsioni causate dalla tossicità dell’ossigeno.

Ossigenoterapia, effetti collaterali
Non solo l’ossigenoterapia iperbarica è collegata ad effetti avversi, ma lo è anche quella normobarica. In particolare ciò avviene con esposizioni molto prolungate o nei neonati (dove una concentrazione troppo alta di ossigeno può causare danni alla retina e cecità).

Negli adulti può verificarsi una sindrome da sovradosaggio da ossigeno, chiamata anche sindrome di Lorrain-Smith: vi è una lesione polmonare causata da un’esposizione per lungo tempo ad un’alta pressione parziale di ossigeno. Questo porta ad una vasocostrizione, che è un meccanismo di protezione contro il sovradosaggio.

Successivamente la membrana alveolo capillare si gonfia, creando una barriera di diffusione per l’ossigeno e conseguente ipossia. Si può arrivare fino ad una vera e propria ARDS (Adult Respiratory Dystress Syndrom) oppure alla fibrosi polmonare. Questi sono effetti avversi di pazienti che utilizzano l’ossigeno per periodi molto prolungati e a dosi eccessive.

Il caso più frequente di effetto avverso che l’infermiere si trova a gestire è l’ipercapnia (specialmente nel paziente con BPCO), ovvero l’aumento della CO2 (anidride carbonica) che porta ad acidosi respiratoria e a turbe della coscienza fino al coma ipercapnico.

In questo tipo di pazienti, che di solito hanno una SpO2 di 88-90%, una quantità più alta del normale di ossigeno induce il cervello a credere di avere più ossigeno del normale e quindi l’attività respiratoria si ricuce. Rallentando e diventando superficiale il respiro, la ventilazione non è più efficace da eliminare la CO2 che si accumula nel sangue causando, appunto, acidosi.

Un altro effetto collaterale che viene causato dalla somministrazione di ossigeno è la vasocostrizione cerebrale e coronarica. È facile quindi intuire che le persone colpite da infarto miocardico acuto o da ictus devono ricevere ossigeno solo se è necessario, altrimenti la vasocostrizione arteriosa porta un peggioramento dell’ischemia. Questo significa che in questi pazienti l’ossigeno va somministrato in due casi: se la SpO2 è inferiore a 94% oppure se il paziente è dispnoico (o ha sintomi di ipossia quali cianosi, ecc.)

Come indicazione generale vale la seguente regola: usare la più bassa concentrazione o flusso possibile per ottenere un livello di ossigeno nel sangue accettabile per quel tipo di paziente.

Quanto ossigeno somministrare
Ossigenoterapia in emergenza/urgenza
La regola più importante da tenere a mente è proprio che non c’è una regola fissa che vada bene per tutti i pazienti.

La cosa migliore da fare in casi non urgenti è quella di titolare l’ossigeno in base alla risposta del paziente, partendo sempre da un flusso basso per poi aumentare via via per ottenere l’effetto desiderato.

In questo modo si evita di iperossigenare il paziente. Chiaramente la situazione ideale sarebbe quella di avere la possibilità di fare una emogasanalisi per mantenere la PaO2 a valori fisiologici per quel paziente (85-95 mmHg in un adulto sano) e quindi titolare l’ossigeno su questi valori. Altrimenti ci si baserà sulla saturazione e, soprattutto, sulla clinica.

È bene ricordare che, invece, in caso di grave emergenza al paziente va somministrato ossigeno ad alti flussi senza indugi e senza preoccuparsi delle conseguenze, poiché nelle fasi acute di criticità vitale il corpo necessita di O2 per sopravvivere. In caso di arresto cardiocircolatorio va ovviamente somministrata la più alta concentrazione di O2 disponibile tramite ventilazione artificiale.

Anche in caso di trauma grave, come incidente stradale, sindrome da annegamento, emorragia grave, shock o ustione è necessario somministrare ossigeno ad alti flussi.

In questo caso non è rilevante se il paziente soffra di BPCO o meno, perché siamo in fase acuta di emergenza e la priorità è l’ossigenazione dei tessuti (in particolare cuore e cervello).

Bisogna considerare che per brevi periodi l’ossigeno ha effetti avversi molto ridotti, anche in caso di paziente con BPCO e quindi farebbe più danno non somministrare ossigeno e lasciare i tessuti ipossici piuttosto che somministrarne di più anche se non era necessario.

Quindi nel dubbio è bene non risparmiare ossigeno al paziente. In ogni caso, in queste situazioni di emergenza di solito un aiuto qualificato o la destinazione di trattamento definitiva del paziente come il pronto soccorso o l’arrivo del team delle urgenze intraospedaliere o una terapia intensiva è disponibile in mezz’ora, tempo di sicuro non sufficiente a creare un danno.

Ossigenoterapia fuori dall’emergenza
Tolto il caso di emergenza in cui, come si è detto, l’ossigeno va somministrato in abbondanza, come comportarsi negli altri casi?

La somministrazione deve essere titolata basandoci su target di SpO2 e clinici. Se non si è in possesso di un saturimetro ci si dovrà basare sulla clinica: miglioramento dei sintomi, riduzione della dispnea, riduzione della cianosi, ripresa della capacità di pronunciare frasi intere, riduzione della tachipnea e tachicardia. In questo caso il target è raggiunto e si può mantenere l’ossigeno a questo livello senza doverne aumentare il flusso.

Se si dispone di un saturimetro, i target si differenziano fra il paziente con BPCO e tutti gli altri:

Paziente con BPCO: target ideale di SpO2 tra 88% e 92%
Paziente senza BPCO: target ideale di SpO2 tra 94% e 98%.
Si può quindi partire con un flusso medio (ad esempio 4-6 l/min) e poi aggiustarlo per raggiungere il target desiderato.

Da notare che il paziente con BPCO, che cronicamente vive con 88-90% di SpO2, non ha bisogno di avere 98-100%, perché potrebbe andare in ipercapnia (aumento della CO2).

Florence Nightingale

Gli altri pazienti hanno un target massimo di 98% e non del 100%, perché al raggiungimento di circa 90-95 mmHg di PaO2 nel sangue la saturazione si ferma a 100% (essendo un valore percentuale non può salire di più), mentre la PaO2 può salire fino a 150, 200, 350 mmHg senza che ce ne si accorga a meno di non fare un emogasanalisi.

Questo comporterebbe uno stato di iperossia di cui non ci accorgiamo (causando ad esempio vasospasmo). Mantenendo invece un target di SpO2 di 98% siamo sicuri che la PaO2 si mantenga al valore fisiologico e normale di circa 90 mmHg (si veda immagine della curva di dissociazione dell’emoglobina).

Dal grafico si vede inoltre come al calare di pochi punti di SpO2 al di sotto di 90% la PaO2 cali drasticamente e in modo non proporzionale.

Da qui l’importanza di mantenere in ogni caso la SpO2 sopra il valore di 88% per evitare grave ipossia.

È necessario prestare attenzione al fatto che il saturimetro può non essere affidabile in certe circostanze (vedi mani fredde e vasocostrizione o soprattutto intossicazione da monossido di carbonio – dove il saturimetro scambia il CO per O2 o grave emorragia – dove il poco sangue rimasto sarà saturato di ossigeno al 100%, ma non è comunque sufficiente a garantire l’ossigenazione del corpo) e quindi è necessario basarsi molto sulla clinica e non solo sullo strumento.

Emergenza Infarto cardiaco o ictus cerebrale Dispnea lieve (se Bpco) Dispnea lieve (se non Bpco) Dispnea grave
Arresto cardiaco
Shock
Grave emorragia
Trauma severo
Ustione grave
Sommersione
Solo se SpO2 < di 94% o se dispnea Indicativamente partire con 2 l/min e titolare Indicativamente partire con 4 l/min e titolare
Attacco d'asma
Polmonite
Pnx spontaneo
ecc.
Alti flussi 12-15 l/min Indicativamente partire con 4 l/min e titolare Indicativamente partire con 8 l/min e titolare (piuttosto più che meno)
Target 100% SpO2 Target: 94-98% SpO2 Target: 88-92% SpO2 Target: 94-98% SpO2 Target: 100% SpO2
Maschera reservoir

(o pallone autoespandibile se arresto CC) Cannula nasale o maschera reservoir Cannula nasale Cannula nasale o maschera venturi Maschera reservoir
Ossigenoterapia domiciliare
La somministrazione di ossigeno domiciliare è raccomandata nei soggetti con bassi livelli di ossigeno a riposo (pressione parziale di ossigeno inferiore a 50-55 mmHg o saturazione emoglobinica arteriosa inferiore all’88%).

Di solito si tratta di pazienti con BPCO, ma anche grave insufficienza cardiaca, fibrosi polmonare o neoplasie polmonari.

L’ossigenoterapia domiciliare diminuisce il rischio di insufficienza cardiaca e di morte, se utilizzato a lungo termine (di solito per 15 ore al giorno), quindi aumenta la sopravvivenza oltre a migliorare la qualità di vita e la performance neuropsichica, permettendo, non da ultimo, di abbassare i costi grazie alla riduzione del numero di ricoveri e delle giornate complessive di degenza.

Anche in pazienti con livelli normali o lievemente bassi di ossigeno, la supplementazione di O2 può migliorare la dispnea e migliorare gli esiti. Il medico specialista prescrive il flusso da somministrare al paziente e la durata in ore giornaliere della terapia e il paziente stesso o i caregiver in autonomia gestiscono la terapia.

Durante le riacutizzazioni di una BPCO è richiesta la supplementazione di ossigeno e quindi il paziente di solito viene seguito a domicilio e fa regolari controlli oltre che di SpO2 anche di emogasanalisi e sua interpretazione.

Questo perché la somministrazione di alte concentrazioni di ossigeno, senza tenere conto dei valori di saturazione di una persona, può portare ad un aumento dei livelli di anidride carbonica e peggiorare gli esiti. Il target di SpO2 da mantenere in questi pazienti è raccomandato tra l'88% e il 92%.

L’ossigenoterapia domiciliare avviene tramite bombole satelliti ricaricabili da una bombola più capiente che si trova a domicilio e consentono al paziente anche di uscire di casa, oppure tramite concentratore di ossigeno, macchinario che riesce ad erogare fino a 4 l/min di O2, ma è vincolato alla presa elettrica di casa e molto ingombrante.

Roberto Degni

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